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lunedì 29 ottobre 2012

Cinema


On the road: sulle rombanti strade della vita


Giovani poeti ubriachi e brulicanti di vita, essenze nella mente, pensieri che superano il tempo, transizioni di vita e morte, eroina nelle vene, ragazzine bionde e melanconiche, consunte sigarette di hipsters fannulloni e girovaganti, macchine da scrivere, lacrimanti parole stralunate ed allucinate: è questa l’America di cui ci parla J. Kerouac nel suo romanzo manifesto della beat generation, On the road, da cui il regista W. Salles ha tratto l’omonima pellicola, presentata a Cannes ed uscita nelle nostre sale l’undici ottobre.

Centoquaranta minuti di intensi dialoghi e fotogrammi di fogli sui quali scrivere una storia, la più grande storia mai scritta da Sal; quest’ultimo, nel lontano inverno del 1947, decide di fare un viaggio con il muscoloso Dean Moriarty, coinvolgendo C. Marx, Old Bull Lee, la moglie di Dean, Marylou ed altri nomadi alla ricerca di sé stessi. Dietro questi nomi fittizi si celano le reali persone che fecero questo viaggio: J. Kerouac, Neal Cassady, Allen Ginsberg, W. Borroughs e LuAnne Henderson. Lo scrittore, infatti, non dichiara i veri nomi, perché non vuol cadere nell’autobiografismo: il suo è lo specchio di un’epoca e qualunque altro ragazzo poteva incarnare un Dean o un Sal. Questo è un giovane pieno di sogni, visioni, amante dei «pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbagliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio.» È uno scrittore, come dire, work in progress, ansioso di raccontare una narcotica esperienza senza intoppi grammaticali o pudori. E ci riesce benissimo: On the road venne scritto su un rotolo di carta in tre settimane, ma il film che vediamo è tratto da un’antecedente edizione da poco ritrovata. Sal era sicuro che da quel viaggio «avrebbe ricevuto la perla» poi, però, iniziano i dubbi, gli interrogativi esistenziali che tormentano i pellegrini. «Dissi a Dean che la cosa che ci legava tutti quanti insieme in questo mondo era invisibile» dice Sal.
Il verbo dovere diventa un paradigma di vita, al contrario della spinta ideale dell’omerico Odisseo, l’eccitante esaltazione sviene in una ridda in cui il dinoccolato Dean uccide il mistero di cui egli stesso è fatto. «La strada dell’eccesso porta al palazzo della saggezza» annotava W. Blake, ma che ne vale quando gli occhi lacrimano (molto suggestiva l’immagine di Dean e Marylou che piangono), perché mancanti di un presente che vuol farsi riconoscere? In fondo, se non si parte con una domanda, che senso ha il viaggio? «Non c’è tempo: dobbiamo partire» ripete ossessivamente Dean, profetizzando la triste condizione del nostro secolo. È proprio il misticismo dell’opera che la rende grandiosa e commovente. Kerouac, come i suoi compagni di viaggio, fu un grande religioso. È questo che differenzia la beat generation dalla lost generation. 

«Quando attraversammo il confine tra il Colorado e lo Utah, vidi Dio nel cielo sotto forma di un enorme ammasso di nuvole dorate dal sole sopra il deserto: il nuvolone sembrava puntare un dito contro di me e dire: "Passa e vai, sei sulla strada del paradiso".»


«In una civiltà in cui si sta bene, ma no troppo» (F. Pivano) gli emarginati, amanti di C. Parker ed E. Fitzgerald, cercano un senso da dare alla miseria della vita, tra estasi alcoliche e archetipi americani (come quello dello spazio aperto e del self-made-man). Un’America triste, puttana, (ma anche) madre buona e spesso illusoria negli anni in cui Lou Reed «non sapeva dove andare»; B. Dylan urlava a squarciagola di sentirsi «come una pietra che rotola» e il presidente H. Truman provava a non usare le armi durante un’inquietante Guerra Fredda. Kerouac voleva raccontare proprio quest’ipocrisia, questo silenzio prima della tempesta tra marijuana, sesso, autostop, macchine d’epoca, donne che, come Marylou e Camille, sono condannate alla vecchia condizione: chi cerca di svincolarsi, vendendosi al mercificato dio-sesso, chi tenta la quiete di una detestabile famiglia. L’incantesimo si dissolve, poi: «Nessuno può arrivare a quella cosa. Viviamo nella speranza di riuscire ad afferrarla una volta per tutte» dice Sal, ribadendo quell’angoscia che attanaglia il giovane Moriarty. Sal Kerouac è solo un filtro nella narrazione. I veri protagonisti sono Dean, Marylou, Carlo e tutti gli altri. Lui è un umile viaggiatore, il menestrello di una generazione che non giudica, ma si muove. C’è da chiedersi se oggi sia possibile un viaggio come questo, nell’epoca del digitale e dei satellitari.
In fondo, noi dove stiamo andando? La nostra cultura si riferisce costantemente al periodo storico di On the road, quasi come non ne fosse uscita viva. Probabilmente, non c’è mai stato posto per gli angry young men, fuorché all’interno di stereotipi di “folli” ed “incompresi” (basti pensare alla tragica fine dell’attore James Dean). Kerouac morì di cirrosi epatica, quindi è rimasto chiuso all’interno dell’etichetta “poeta-maledetto”, non molto diverso da C. Baudelaire o E. Hemingway, ma questo non basta.
Strade impervie, tramonti rossastri su S. Francisco e stelle ammiccanti la strada, quella che indica sempre verso sud- ovest. Pollice alzato, una mano tra i capelli e occhi folgorati al cospetto di artemisie e campi di grano, un trabiccolo sgangherato e fogli consunti fatti per essere scarabocchiati: questo è On the road.
Il grande premio che va a W. Salles (già noto per I diari della motocicletta) è proprio la fedeltà al testo, coadiuvato dalla produzione di Francis Ford Coppola e dalla sublime fotografia di Eric Gautier. Ci sono, poi, giovani attori promesse del cinema venturo (Sam Riley, Garrett Hedlund, Kristen Stewart), attori già noti al pubblico (Viggo Mortensen, Kirsten Dunst, Steve Buscemi) e raffinate colonne sonore curate da G. Santaolalla.
La storia è sicuramente modernizzata e quindi attira il pubblico giovanile. Dopo la proiezione, ci si rende conto di un cambiamento, un risveglio, un nuovo pensiero.
«Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session» scrisse Kerouac e, quindi, con immensa gratitudine, ricordiamolo con una degna foto storica: Bob Dylan e Allen Ginsberg dinanzi alla sua tomba.

«E allora penso a Dean Moriarty,
penso perfino al vecchio Dean Moriarty,
padre che non abbiamo mai trovato,
penso a Dean Moriarty.» 
da On the road

Benedetta Spampinato

4 commenti:

  1. Ho sempre visto "On the road" come la perfetta metafora di un percorso interiore. Oserei paragonarlo al viaggio dantesco (sesso e droga a parte) di cui conosciamo pagina dopo pagina l'Inferno, il Purgatorio e poi ancora il Paradiso, anche se probabilmente non si arriverà mai in modo concreto a una catarsi spirituale (e forse Kerouac non l'ha mai raggiunta, dal momento che gli eccessi di ogni tipo lo hanno portato alla morte). "On the Road" è uno di quei viaggi che solo i "pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza" da Kerouac tanto elogiati possono intraprendere e capire.
    Inizialmente Salles ha forse catturato frettolosamente alcuni frammenti di questa ricerca e confesso di essere rimasta delusa da alcune scene che avevo perfettamente immaginato nella mia mente durante la lettura, ma che nel film non hanno ricevuto la giusta e meritata importanza (ma questo è chiaramente soggettivo). L'ultima parte, però, ha reso giustizia al libro, forse perché la Stewart è uscita di scena.

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  2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  3. "E per un istante raggiunsi l'estasi che avevo sempre desiderato conoscere: consisteva nell'entrare di netto nelle ombre eterne superando il tempo cronologico e nell'osservare stupefatto da lontano lo squallore del regno mortale, nella sensazione della morte che mi incalzava spingendomi ad andare avanti, con un fantasma alle spalle che la incalzava a sua volta, e correvo verso un trampolino dal quale si tuffavano gli angeli per volare nello spazio sacro del vuoto della non-creazione, nel potente e inconcepibile fulgore che si sprigionava dalla luminosa Essenza della Mente, con gli innumerevoli regni dell'oblio che si aprivano nel magico firmamento del paradiso. Sentivo un rombo indescrivibile, un fragore che non era nelle mie orecchie ma dappertutto, e non aveva niente a che fare con il suono. Mi resi conto di essere morto e rinato innumerevoli volte, senza ricordare, perchè la transizione dalla morte alla vita è così facile ed eterea, una magica azione per nulla, come addormentarsi e svegliarsi un milione di volte, la totale casualità e la profonda ignoranza di tutto ciò. Mi resi conto che era solo per via della stabilità della Mente intrinseca che aveva luogo questo ondeggiare dalla nascita alla morte, lieve come l'increspatura creata dal vento su uno specchio d'acqua puro, sereno. Provavo un senso di felicità dolce, travolgente, come una grossa iniezione di eroina nella vena principale; come il brivido di un sorso di vino nel tardo pomeriggio."
    J. Kerouac da "On the road".

    I versi più belli del romanzo.
    Occhi allucinati, bramosi e dannatamente nudi, meschini.
    Credo che non sia poi cambiata così tanto la storia del mondo dagli anni '50 ad ora. Sempre lo stesso naso all'insù, che protesta una febbrile voglia di scappare.
    Da cosa, poi?
    Me lo sono chiesto tante volte e credo che la risposta sia quella dell'Allen di "Midnight in Paris": vogliamo sempre tornare indietro, vivere epoche nostalgiche e, per così dire, "artistiche", ma dobbiamo fare i conti con la nostra realtà, perchè a questa dobbiamo dare. "DARE": un verbo assolutamente "gratuito"nella sua purezza, anche se sottintende sempre una dialettica: nel momento in cui si dà, si riceve.
    E quanta Bellezza riceviamo dalla realtà, se solo ci aprissimo all'imprevisto. Kerouac questo l'aveva capito, ma guardava sempre ad un Oltre troppo lontano, quando era già dentro. Lui c'era dentro, fino al midollo ma, probabilmente, ha scelto il modo sbagliato, perchè mancava l'Ideale, ciò che dovrebbe spingere l'umanità alla stessa vita.

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  4. "Così continuiamo a remare barche controcorrente risospinti senza posa nel passato". (Fitzgerald)
    Kerouac si è circondato imprevisti: li ha vissuti, violentati, ci ha fatto l'amore, li ha presi a pugni e li ha riportati su carta. Sarei curiosa di sapere se ha trovato quello che cercava vagando come un forsennato per Paterson, New York, Salt Lake City e, ancora, LA, Kansas City... Chissà cosa rimane nel cuore dopo tutti questi chilometri.

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