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mercoledì 11 aprile 2012


Cina, prima dell’esecuzione reality shock

Condannata a morte

Sulla televisione di Henan, nella Cina centrale, ogni sabato sera va in onda “Interviste prima dell’esecuzione”, curato dalla giovane giornalista Din Yu. Fin dal 2006, sono oltre 40.000.000 gli spettatori che seguono con partecipazione uno dei “reality” più insoliti degli ultimi anni: niente naufraghi su un’isola, niente telecamere nascoste, nessun premio in denaro all’orizzonte.
Al massimo, una forca ben tesa.
Per entrare a far parte dello show basta poco: un atto di corruzione, una rapina di un certo calibro o un qualsiasi reato non di sangue sarebbero più che sufficienti. Secondo le valutazioni di alcuni gruppi umanitari, per quanto il reale numero sia un segreto di Stato, le esecuzioni capitali in Cina oscillano, infatti, fra le duemila e le ottomila per anno. Le autorità hanno pensato bene, pertanto, di autorizzare la trasmissione di questo programma nel tentativo di “educare” la popolazione, incutendole paura e facendo così diminuire la criminalità: «Bisogna ammazzare le galline per spaventare le scimmie», recita un proverbio tradizionale cinese.
“Interviste prima dell’esecuzione” è stato, quindi, il risultato della convinzione di molti dirigenti politici e cittadini stessi che la pena di morte sia un atto di giustizia, unita alla certezza che lo share non avrebbe deluso gli ideatori del “reality”. Tali aspettative, di fatto, sono state confermate: i dead men talking, come li ha definiti un documentario australiano, vengono interpellati poco tempo prima della condanna, talvolta un paio di minuti prima. Sono protagonisti di scene a dir poco agghiaccianti, durante le quali c’è chi piange, chi si getta per terra gridando, chi si rivolge ai teleschermi per chiedere perdono alla propria famiglia. Alcuni hanno il coraggio di dire alle telecamere «Sono pronto», prima di essere trascinati via dalla polizia, altri salutano per l’ultima volta figli o genitori, e tutto ciò ha letteralmente conquistato l’attenzione degli spettatori cinesi.
Spesso i condannati sono poco più che ragazzi (è il caso di un ventenne che ha ucciso la madre da cui non aveva ricevuto i soldi per giocare ad un computer-game), ma la giornalista Din Yu, giovane, bella e con un figlio piccolo, non sembra scomporsi più di tanto sul posto di lavoro. «Conosco nei dettagli tanti storie, ho conosciuto la realtà di tanti crimini… Non è una cosa buona, ora ho troppa immondizia nel mio cuore», ha dichiarato.
Fortunatamente, la BBC ha mandato in onda un documentario sul programma per sensibilizzare ed informare il maggior numero di persone possibile sulla faccenda. Ciò deve avere allarmato le autorità, perché, stando a quanto ha dichiarato la rete televisiva americana Abc, il “reality shock” è stato sospeso. Da parte della televisione dell’Henan la notizia non è stata né confermata né smentita, ma il solo fatto che per sei anni il programma sia stato trasmesso regolarmente ogni sabato sera fa riflettere circa la morale prevalente in Cina, che spesso non esita ad accusare con severità chi trasgredisce la legge - la stessa Din Yu non di rado ha congedato i propri interlocutori affermando che è una fortuna che individui del genere si trovino in galera.
Poco importa, a questo punto, del destino del “reality”: è la mentalità di una fra le etnie più numerose al mondo ad allarmare, soprattutto perché non molto lontana da quella di numerosi Paesi occidentali. Cambiano le modalità, cambiano i soggetti, ma non la passività del pubblico televisivo (la cui curiosità è diventata morbosa), non la capacità di speculare e fare spettacolo di fronte a qualsiasi avvenimento senza battere ciglio.
C'è da chiedersi se, a lungo andare, pur di non perdere ascolti, agli spettatori sarebbe stato consentito scegliere chi eliminare.

Eva Mascolino

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